Si sa, il divorzio è sempre una decisione difficile da prendere: è una questione molto delicata sia per la coppia sia, forse soprattutto, per i figli, laddove vi siano.
Oltre a difficoltà di tipo “emotivo”, si pongono anche problemi di carattere pratico.
Ne abbiamo parlato a Barcellona, al convegno sul diritto di famiglia cui abbiamo partecipato e di cui vi abbiamo già parlato in un articolo dedicato alla comunione legale.
Oggi vogliamo affrontare il problema della collocazione dei minori, a seguito della separazione dei genitori.
A seguito della separazione o del divorzio, sarà necessario decidere a chi verrà assegnata la casa nella quale si è svolta la vita della famiglia fino al momento del divorzio e, se la coppia ha avuto dei figli, quale sarà il genitore affidatario.
Le due decisioni non sono indipendenti l’una dall’altra, ma vanno di pari passo.
Quando si parla di casa familiare (o di casa coniugale, se la coppia è sposata), si fa riferimento al luogo di normale convivenza della famiglia, al complesso di beni funzionalmente attrezzato per assicurare l’esistenza domestica del nucleo familiare.
Si tratta, pertanto, del luogo-fulcro degli interessi e delle abitudini dei componenti della famiglia.
Una volta disgregatosi il nucleo familiare, a chi va assegnata la casa?
Ebbene, il punto focale è sempre solo uno: l’interesse della prole. I diritti che hanno i genitori o i terzi su quel bene immobile passano in secondo piano. E quando si parla di interesse della prole, si fa riferimento al fatto che per i bambini potrebbe essere traumatico cambiare improvvisamente abitazione in una situazione familiare delicata, per tanti diversi motivi: si pensi alle ipotesi in cui il bambino sia abituato a giocare in cortile con gli altri bambini del condominio, oppure alla vicinanza della casa ai luoghi in cui si svolge la sua attività formativa ed extraformativa (scuola, piscina, oratorio…).
Fino a non molto tempo fa, la legge voleva che venisse individuato un solo genitore affidatario al quale veniva assegnata anche la casa familiare. Questa scelta era coerente con la collocazione dei figli presso un solo genitore.
Con la legge n. 56 del 2006 è stata introdotta la cosiddetta bigenitorialità: sulla base di questa nuova disciplina, i figli sono affidati in via condivisa ad entrambi i coniugi e il giudice ha il compito di decidere i tempi e le modalità della loro presenza presso ciascun genitore.
Proprio perché l’affidamento condiviso prevede che i figli siano affidati ad entrambi i genitori, la logica conseguenza è che gli stessi debbano trascorrere con i bambini la stessa quantità di tempo.
In questo modo, però, si rischia però che il bambino si trovi in difficoltà, costretto a cambiare casa ogni tre o quattro giorni. Ecco perché il nuovo orientamento dottrinale suggerisce che siano i genitori a farlo: è come se la casa familiare fosse, di fatto, assegnata ai bambini e siano i genitori a doversi alternare all’interno della stessa.
Quindi l’orientamento attuale prevede che, specialmente nei casi in cui i genitori non riescano a trovare un accordo, il giudice decida che i bambini continuino a vivere nella loro casa e che i genitori si organizzino per viverci in alternanza.
Può sembrare bizzarra come soluzione, ma la dottrina ritiene che l’esigenza di bigenitorialità prevalga sulle necessità dei genitori, anche se, naturalmente, il giudice dovrà adattare le decisioni al caso di specie, tenendo conto delle eventuali difficoltà e delle peculiarità della situazione specifica.
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